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Dino Campana, il demone creativo e la notte

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 A Dino Campana

Ritorna, che cantar canzone di voto

dentro l'acqua del Naviglio io voglio

perché tu sia riesumato dal vento.

Ritorna a splendere selvaggio

e giusto ed equo come una campana,

riscuoti questa mente innamorata

dal suo dolore, seme della gioia,

mia apertura di vento e mio devoto

ragazzo

che amasti la maestra poesia.


Alda Merini

 

La voce poetica che si apre verso le esperienze liriche che caratterizzano il dopoguerra è, senza dubbio, quella di Dino Campana. Egli rappresenta un caso a sé in tutta la letteratura italiana. Giudizi e accuse hanno accompagnato questo "alchimista" di versi del primo Novecento anche dopo la morte. "Alzai la testa e ricercai la stella / Avvelenata sotto cui sono nato": questi due versi rivelatori sono la terribile sentenza che suggellò il suo destino. La vicenda stessa di quest'uomo appare come una lunghissima stagione di follia indomabile. Lo stesso Campana può riassumere la sua biografia in poche righe, in una nota trovata tra le sue carte dopo la morte: "Dino Campana nacque il 20 agosto 1885 in Marradi [...].All'età di 15 anni, colpito da confusione di spirito, commise in seguito ogni sorta di errori ciascuno dei quali egli dovette scontare con grandi sofferenze". Il padre era maestro elementare; la madre, Fanny, casalinga. Il fratello di Fanny, affetto da pazzia, viveva sotto lo stesso tetto quando già era nato Dino. Tutto il paese darà valore alla "ereditarietà", stabilendo una connessione tra zio e nipote. Nel 1888 nasce il fratellino Manlio. A seguito di tale evento Fanny, per evitare ulteriori gravidanze, rifiuta ogni rapporto coniugale. Il marito, nel giro di qualche mese cade in depressione e deve essere temporaneamente internato nel manicomio di Imola. Fanny riversa tutte le sue cure al neonato, ignorando deliberatamente Dino. Il ragazzo si chiude in se stesso, scoprendo la gelosia fraterna e un odio aperto per la madre. Segue i corsi ginnasiali a Faenza, presso il Convitto Salesiano ma con scarso profitto.Nel 1897 si iscrive al Ginnasio-Liceo "E. Torricelli". Colto da disturbi nervosi,deve tornare a Marradi, dove continua privatamente gli studi. Ricominciano gli scontri con la madre. Oltre al disadattamento ambientale, ora è oggetto di scherno da parte dei coetanei. Dino resta fuori casa quanto più può, si apparta, si rifugia nei boschi a contatto con la natura, legge, si nasconde nei fienili per interi giorni senza toccar cibo. Ogni volta che discende in paese, lo scherniscono, e allora il ragazzo s'identifica, perversamente, nel personaggio del pazzo. Nel 1903 s'iscrive a chimica pura a Bologna, ma passa subito a chimica farmaceutica presso l'Istituto di Studi Superiori a Firenze, per poi tornare a Bologna. La difficoltà di adattamento alimenta le turbe nervose che rendono necessario, nel 1906, un primo ricovero in manicomio, ove resta però pochi mesi soltanto, per intervento del padre. A 19 anni, Dino prende il primo treno per il nord. Sarà a Milano, poi in Svizzera, infine a Parigi, ove acquisisce conoscenze di pittura moderna che affioreranno nella sua opera letteraria. I viaggi disperati sono quelli di un eterno fanciullo, rapito nell'anima dal demone della poesia: "Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta un'ansia del segreto delle stelle, tutto un chinarsi sull'abisso. Ero bello di tormento, inquieto, pallido assetato errante dietro le larve del mistero...".
Campana conosce in terra francese i poeti "maledetti" Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. Più volte lo fermano per vagabondaggio. Per sbarcare il lunario fa i più svariati mestieri. Infine torna a Marradi, ma per poco. Ama troppo la vita da nomade, l'aria aperta, la vastità delle valli coi suoi echi e i suoi silenzi rispecchianti i paesaggi segreti dell'anima, e che gli aprono il cuore sull'infinito. Ha compiuto 22 anni. Compone le poesie che formeranno i Canti orfici. La raccolta sarà ultimata nell'autunno 1913. Nella sua poesia visionaria sembra trasparire un rapporto spirituale con quella di Rimbaud. Si è molto insistito, all'inizio, sull'influenza del poeta francese, ma essa è stata giustamente rimessa in discussione dalla critica più recente. Nella poesia di Campana, la Notte è il suo simbolo visivo. E in essa appaiono lampeggiamenti, immagini frantumate... Egli cerca il risarcimento della sua fame di vita in una poetica dilacerata, sia come simbolo di bellezza ideale, sia come incarnazione di una condizione umana che fa di lui uno sradicato, un anarchico. Scrive Galimberti che Campana fu poeta "nel segno della poesia come vita". Emilio Cecchi parla di "un esempio di eroica fedeltà alla poesia: un esempio di poesia davvero col sangue". E il critico Angelo R. Pupino (1): "Lo stravolgimento allucinato della parola e trasformazione di questa in oggetto, avviene nel raggio di un non cospicuo numero di immagini-simboli (erotiche, soprattutto) che subiscono alcune variazioni e molte reiterazioni. Alla fine, l'impressione è di una forte componente letteraria, anzi intenzionalmente e sacerdotalmente poetica ". In Argentina, dove resta per poco, Campana svolge vari lavori per vivere. E' in Olanda, Belgio, attraversa a piedi intere regioni. Viene arrestato per vagabondaggio e trascorre due settimane nel manicomio di Tournay. Torna a Marradi ancora una volta, per poco tempo, nel 1908. Vaga ancora, spirito inquieto e tormentato. Questa sua ansia di muoversi, di cambiare luogo corrisponde a un motivo profondo della sua poesia: il viaggio (soprattutto interiore), il senso di evasione dalla condizione presente, l'inseguire qualcosa (una Chimera) che non potrà mai essere raggiunto. Dino si reca a Firenze nel dicembre 1913, con in tasca il manoscritto dei Canti Orfici, e si presenta alla redazione di "Lacerba", dove incontra Papini e Soffici che dirigono la Rivista.Frequenta intanto il gruppo di artisti e letterati che si riuniscono al caffè delle "Giubbe Rosse" e alla birreria "Paszkowski". Tempo dopo scrive a Soffici per avere indietro il manoscritto, ma l'artista lo ha perduto durante un trasloco. L'episodio penoso sconvolge Campana, il quale, prossimo al collasso nervoso, ne ricompone a memoria la seconda stesura, deciso pubblicarlo. Gli editori a cui lo invia, lo ignorano, così egli in estate si decide a stamparlo a spese proprie, presso il tipografo Bruno Ravagli. Torna a Firenze dove vende personalmente il libretto nei caffè e nei luoghi pubblici, firmando il volume o strappando qualche pagina a seconda che l'acquirente gli sia "simpatico" o "antipatico". Estimatore, con alcuni altri, della novità della poesia di Campana, è lo stesso Soffici. Silenzio, al contrario, da parte della critica. Deluso, Dino parte per la Svizzera, in cerca di lavoro. Intanto l'Italia entra in guerra (1915). Dino pensa di arruolarsi ma viene riformato. La delusione si trasforma in mania di persecuzione.

Si ammala di nefrite, reni infiammati. Mentre si trova a Genova, colto da una paralisi al lato destro. In settembre, viene curato in ospedale, a Marradi, per la nefrite e l'infezione luetica. Guarisce ma rimane preda di deliri e acute cefalee. Sviluppa un delirio persecutorio nei riguardi dei letterati fiorentini. La famiglia Campana si trasferisce intanto a Signa, presso Firenze. Dino si sente finito; il destino lo sovrasta come una spada di Damocle. Ha dato tutto al demone creativo; ora erra senza pace, l'anima lacerata... Ed ecco che quel destino ("stella avvelenata") contro il quale egli impreca, deve riservargli un'ultima esperienza consistente in una felicità effimera che però si tramuterà in struggente dolore: il fatale incontro con Sibilla Aleramo (2). E' l'estate del 1916. Nasce un amore disperato e divorante, ma anche trasfigurato in un alone di magia lirica: "Vi amai nella città dove per sole / Strade si posa il passo illanguidito / Dove una pace tenera che piove / A sera il cuor non sazio e non pentito / Volge a un'ambigua primavera in viole / Lontane sopra il cielo impallidito". Un amore passionale che lo travolge; è come un incendio dei sensi, una fiammata. Infatti dura poco, meno di un anno. Per lui è il colpo definitivo; cade in delirio, si dà al bere, va spesso in escandescenze. Durante un episodio persecutorio, è fermato in stato di etilismo e trasferito al manicomio di San Salvi di Firenze. Da lì, il 18 marzo è inviato in internamento al manicomio di Castel Pulci. Ormai in questi posti si può dire che "è di casa". E' preda di visioni e di violenti deliri.
Ma non è da escludere che a condurlo in quello stato abbiano contribuito i rudimentali elettroshock n uso allora, che portano allo sfacelo della psiche. Dino è interrogato e "tormentato", per tre anni consecutivi, dallo psichiatra Carlo Pariani (poi suo medico e futuro biografo). Finalmente nell'autunno 1930 viene ritenuto guarito.Ma ecco il cerchio si chiude: Campana muore il I° marzo 1932, per "setticemia primitiva acuta". Almeno, questa la diagnosi; ma la verità, nei suoi riguardi, sembra ancora una volta negata: si dice che in realtà egli fosse morto per una ferita procuratasi scavalcando un recinto di filo spinato. Persino le sue spoglie devono peregrinare, fino a quando, nel 1946 saranno traslate nella chiesa di Badia. Dopo la morte, 43 composizioni vengono trovate per caso, trascritte su un quaderno. Saranno poi pubblicate in Canti Orfici e altri scritti (Vallecchi 1952), a cura di Enrico Falqui.

Chiudiamo questo breve excursus sulla vita e l'opera di Campana con le parole di Carlo Bo, che nell'introduzione ai Canti Orfici scrive: "La poesia ha continuato per altre vie, ha avuto illustri pretendenti ma non ha più coinciso con il destino di un uomo, così come era accaduto con Campana. Ecco perché va ripetuto che Campana resta l'ultimo poeta, il poeta toccato e divorato dal fuoco, il poeta che è entrato per sempre nel cuore stesso della notte e non ne è più uscito".

 

NOTE

(1) Letteratura mondiale del '900, 3 voll., Edizioni Paoline 1980.

(2) Della scrittrice (1876-1960) s'innamorarono anche, a quanto ci risulta, Giovanni Papini, Vincenzo Cardarelli e Salvatore Quasimodo.

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